25/09/11

IL CIMITERO DELLE FARFALLE

Ho appena schiacciato tra le mani una farfalla. Una bella farfalla, non c'è che dire, con le ali dipinte di colori sgargianti in una simmetria sorprendente. Riflettendoci su, è come se questi insetti vivano in tensione mortale tra la bellezza che le tira da un lato ed il tempo dall'altro.
Ora sta sparendo nelle tubature del lavandino; mi ha pure lasciato sulle mani due macchioline bordò – non sapevo che il loro sangue avesse lo stesso colore del nostro. Mi dava fastidio, ecco tutto, ero qui in salotto a studiare e il suo ronzio mi era insopportabile; 'sta cretina non lo sapeva che entrando nelle case della gente si incorre a morte sicura?! Ben le sta; che sia da monito per altre eventuali disturbatrici!

Svolazzano freneticamente le farfalle, come forsennate, non si posano mai; vivranno un giorno solo, e forse inconsciamente già lo sanno: hanno fretta, e se si posano, lo fanno per alcuni istanti, che a loro appaiono un'eternità, poi ripartono subito, non volendo perder tempo, a conoscere il più possibile il mondo. Qualcuna morirà prematuramente, peccando d'inesperienza, forse schiacciata o in pasto ad un ragno; ma per l'esiguità della loro vita non potranno mai comunicarsi tra loro come evitare certi errori: nessuna mamma salverà il proprio figlio dall'orco.
Sono ingenue le farfalle, non commettono errori: vivono e muoiono per istinto, non per cultura.

AUTORE: PRF

LA RIFFA COSMICA




Come ogni essere vivente su questa terra, sono nato innumerevoli volte, ho assunto le forme più diverse, patito ogni possibile passione.
Come tutti gli esseri viventi sono morto. Ripetutamente.
Nascere sempre e morire sempre, non nascere affatto ed essere immortali.
Siamo gli stessi esseri sin dall'alba dei tempi.
Niente, né qui né in altri piani, ha il potere di creare e distruggere, tutto si trasforma da sé.
Fui leone e sciacallo, sono uomo, sarò topo e chissà ancora cos’altro, ma la mia condizione rimarrà sempre, irriducibilmente, precaria: prenderò coscienza di me solo quando non ci sarò e per il fatto che non ci sarò. Così come siamo che viviamo, la saggia storia del mondo, pur dentro di noi, non ci é accessibile, perché l'alito vitale la congela, l'assopisce in un profondo letargo.
Ora soltanto posso rimembrare quando nacqui pulce e dimoravo tra i crini lucenti del leone della Grotta d’Oro sull’Himalaya, la centoquarantatreesima forma in cui il Maestro comparse sulla terra. Magnifico nelle sue movenze da predatore, nelle pause fiere e statuarie tra le canne della pianura, nel mentre del recupero delle forze dopo uno scatto andato a vuoto. La luce emanata da ogni suo singolo pelo e dalla stessa pelle accecava e tingeva tutt'attorno di bianco, che mi sembrava di saltellare nel nulla. Lì dal Maestro conducevo un'esistenza mite, astemia e timorata, la ricerca di cibo non mi preoccupava e la mia anima era nuda e casta.
Presso la Grotta d'oro, il fulgido leone, aveva uno sciacallo come suo servitore, il quale lo serviva e pure riveriva con devozione sincera, ma che un giorno peccò di superbia, e perciò ne morì. Il Maestro fu a guardarlo, dalla sua grotta, mentre soccombeva lì nella valle sotto le zampe di un elefante, dopo aver tentato di cacciarlo, poiché bramoso dell'adrenalina del potere e dunque non più sazio dei comodi pasti procacciatigli dal leone in cambio del suo servizio. Dinanzi a quello scempio, impassibile l'Illuminato recitò questi versi:

 “Si sa già in sé che la morte é l'unica pace,
momentaneo sollievo a questa riffa atroce.
Che il cielo voglia dargli un germe redentore
in unici fugaci attimi di riflessione,
laddove in vita non ne prese concezione”

Noi pulci, zanzare e moscerini, mosche formiche e muffe, tutti ascoltammo l'insegnamento e meditammo, com'era solito dopo che il leone terminava il ruggito rivelatore. Di bocca in bocca il verbo e le parabole si diffondevano e acquistavano santità, il Buddha e la dottrina venivano conosciuti nel mondo.
Nel brusio silenzioso delle declamazioni, salii sino all'enorme anfratto sinistro e feci riecheggiare la mia vocina nella luminosa cavità cartilaginea, interrogando se non avesse il Maestro egli stesso il potere di indirizzare le vite sulla via della rettitudine. E Lui rispose: “Giovane pulce amica mia, rimane comunque, nonostante quasi impercettibile, una flebile lucina sempre accesa, un filino coerente che anima ognuno di voi e lo caratterizza, lo dirige. Nulla é in mio potere, se non il sapere, e in virtù di questo sono giusto e buono. Voi assopiti avete bisogno di credere per agire: sebbene abbia pietà e misericordia di voi, nulla posso e soltanto da voi stessi può partire lo slancio verso il vertice della ruota; altrimenti vi é la pervertita deriva, che moltiplica a non finire le espiazioni, condannando alla sofferenza perpetua del vivere”. Così disse, e dopo aver compiuto atti di generosità e altre buone azioni, quando il suo tempo fu compiuto, raggiunse le regioni celesti.
Ora soltanto posso rimembrare che in quella vita ho avuto il raro privilegio di incontrare il Buddha, che la via verso il Nirvana mi era stata mostrata e stava a me seguirla o meno.


Nato brammano al tempo di Brahmadatta re di Benares, ho avuto in moglie una donna così dolce che le sue urla, un giorno, distrussero l'intera città. Sotto le macerie, vivi per miracolo, tra le lacrime e la polvere mi disse ti amo.

Quando le neonate borse colavano a picco, presi in moglie una donna bellissima, ma sciagurata: l'avevo presa che c'aveva il pallino del femminismo. O, per meglio dire, da un certo momento non le andò più giù che io avessi il pene. Le consigliai come sfogo alle voglie da dominatrice di provare con esperienze lesbo, indossando quelle cinture fornite di protuberanza rigida che uscivano appena sul mercato e che avrebbero avuto enorme successo in seguito, chissà con qualche altra casalinga disperata, moglie di u altro agente di borsa a Wall Street, insoddisfatta e lacerata dalla noia. Ben presto capii che chi voleva inculare ero essenzialmente io.

Al tempo del rientro dei Borboni a Parigi, sono stata una donna che cercava negli uomini comprensione per le difficoltà, sostegno per le precarietà e protezione per i pericoli che questa esistenza porta con sé; son sempre rimasta indifferente all'esteriorità, all'estetica del sentimento amoroso, ho sempre badato alla sostanza. E se avessi continuato così, se non avessi trasgredito con quell'ebano nerboruto marinaio dei Caraibi, solo per la vile libidine, non avrei lasciato la gestione del bordello più rinomato di Marsiglia per crepare di sifilide, tra atroci dolori, in un lazzaretto in mezzo agli appestati. 

Sono rinata cattolica una volta. Fervente cattolica. Ma non per questo ho mai disdegnato la compagnia di uno o più uomini, almeno da quando sono venuta a conoscenza di un loro particolare molto simile ai rubinetti e agli ortaggi che tanto mi hanno appagata nell'adolescenza. Un desiderio, quello di possedere gli uomini, rinvigoritosi con il delinearsi meglio delle mie curve, e divenuto insostenibile e ossessivo non appena, con l'immagine pia e inaccessibile che mi sono dipinta addosso, ho notato di essermi tramutata nella preda più ambita dai maschi, fossero essi miei coetanei, padri dei miei coetanei o parroci dei miei coetanei. L'illibatezza sino al matrimonio l'ho aggirata occupando semplicemente le restanti vie d'accesso: spesso nei bagni di locali pubblici ed istituzionali, in orari d'ufficio, o in utilitarie sperdute tra i campi, nei pomeriggi dopo il catechismo. La carne é debole, ma ci si può sentire in colpa più comodamente qualche giorno dopo, durante la confessione. Ai ventiquattro anni mi hanno data in sposa al figlio dell'ex-democristiano più suffragato della circoscrizione; un bel matrimonio, sfarzoso fu il viaggio di nozze. Poi due anni circa di ecchimosi e ricoveri per traumi vari, da giustificare ogni volta con progressiva fantasia per non compromettere me e il padre di lui... fino a che un ragazzetto strafatto di anfentamine non mi ha investito in pieno sulle strisce con il suo Booster privo d'assicurazione, mentre ritornavo a casa dalla messa domenicale. Proprio quando stavo ultimando le pratiche per l'annullamento alla Sacra Rota: lui era impotente e l'unione non s'é consumata. Sono morta vergine lì sulla strada, come la madonna.   

Per un breve periodo, non so dove negli innumerevoli posti in cui ho vissuto, ma é certo che fosse in un tempo in cui i costumi e i canoni sessuali rappresentavano la paccottiglia impolverata nascosta nella soffitta della morale, ho frequentato una tipa con una tale carica sessuale che mi addormentavo sempre ancor prima di andarla a prendere; provò a svegliarmi con un pompino una volta... persi il lavoro.

Ho avuto anche una parabola omosessuale, incastonata in una vita fino ad allora, e anche oltre, abbastanza irreprensibile: un flirt un po' controverso con il mio capufficio, in uno dei miei diversi lavori da dipendente scapolo del settore terziario. Mentre mi prendeva da dietro mi implorava pieno di godimento e voluttà di non dirlo a mia madre. E dopo mi faceva pulire pure la scrivania.

Mi capitò di andare con la bidella della mia scuola, la seconda volta che sono stato molto giovane. Ci demmo l'appuntamento alle 18.00, ovviamente lì dove la passione proibita ci sedusse: davanti a scuola. A mia madre giustificai l’uscita con il classico quaderno da restituire al compagno di banco per i compiti dell'indomani. Ricordo di aver atteso il suo arrivo soltanto qualche minuto al freddo gelido stepposo, ma abbastanza per rischiare grosso nel recupero dei miei testicoli acerbi rannicchiatisi oltre i buchini del bacino, cercando di stiracchiare la sacca scrotale accartocciata e sgonfia. A bordo di una Trabant verde militare mi condusse a casa sua, in uno di quei quartieri a cimitero con le palazzine di loculi. Mentre mi spogliava mi confessò che le piaceva farlo davanti alla finestra. Già scombussolato per quella faccenda dei gioielli di famiglia, il mio disagio aumentò di molto in seguito a quell'insolita preferenza, io che ero ancora straniero dei vicoli bui della perversione, e mi rese una molla quando dovetti nascondermi con un guizzo felino dietro le tende, non appena scorsi il mio maestro di storia e studi sociali che scattava foto dal palazzo di fronte.


Sto guardando e passando in rassegna le mie vite a dir poco disordinate, perché é da che fummo violate io, Onfale e le altre dall'empio lidio, che s'é dispiegata la lenta e inesorabile peregrinazione all'indietro. Alla maniera di un sutra che si srotola al vento, le vedo svolgersi frenetiche, eppur limpide. Il disordine e l'insoddisfazione sono state le costanti che, dopo il santo incontro, m'hanno afflitto per le tutte le seguenti tappe della trasmigrazione, che tutt'ora non accennano a lasciarmi in pace e aumentano la loro insistenza, perseguitandomi e pungolandomi per mezzo dell'imperitura frustrazione: la pena, questa nemesi, inflittami, che più vivo e più non riesco a redimermi. Allontanandomi ad ogni giro di ruota, sono arrivato a lambire i limiti della lussuria, e vi ho indugiato così tanto da trasbordarli e perdermi definitivamente alla deriva. Continuo senza sosta nel vizio, ormai irrinunciabile, vitale, che come calamita mi attrae: pure se all'apparenza possa risultare che venga costretto, stride la dubbia casuale puntualità con cui si attuano i miei traviamenti, come quando rinacqui nel più splendido esemplare di alano maschio alla corte del macedone Selenco I, l'unico di tutto l'allevamento a non venire mai ceduto come dono ai regnanti alleati, perché trastullo personale del laido monarca, affascinato dalle dimensioni importanti e dalla suscettibilità spiccata del mio fallo. Una tra le esperienze più umilianti del mio passato.
Abitudine al vizio che porta all'assuefazione, e dunque a spingersi oltre, verso il crimine, andando a saziare impulsi via via sempre piú sotterranei e spaventosi. Una via percorribile potenzialmente da chiunque, se é vero che in una vita, assieme ad un parroco di paese adescavamo quindicenni per la via, per seviziarli e trucidarli, guadagnando milioni col mercato nero degli snuff movies.
Non riconduco le mie disgrazie ad una causa primigenia, individuandola magari nelle infinite delusioni di una vita d'amori, per gli abbandoni subiti nelle cittá piú romantiche, per i tradimenti scoperti, per gli ingoi negati. Nella mia immensa ma estemporanea saggezza ho scoperto quanto siano insulse e prive di senso questo tipo di giustificazioni, o meglio quanto lo sia il giustificarsi stesso: invero, non ci si puó mai pentire di alcunché.
Di provato c'é che gli esseri umani non ho mai saputo come inquadrarli a seconda di come fanno l'amore, forse perchè non prestavo loro molta attenzione: spire tentacolari mi agguantavano per trascinarmi nel miele, accendendomi della più lasciva passione. Sono stato in vita così egocentrico da non preoccuparmi di nient'altro che del mio godimento, arrivando persino ad umiliarmi per questo difetto. Perché, difatti, non sono mai riuscito a negarmi in maniera netta e convincente. Molto spesso é stata quieta acquiescenza verso i peccati che andavo a commettere o subire. Il piacere, il godimento mi coglievano invadendomi e alimentandomi in entrambi i casi, e non ho mai potuto prescindere da ciò. Un incosciente egoista, perché cosciente solo di essere in mezzo ad una massa di egoisti: sarà questa la colpa di cui non riesco a liberarmi?

A quest'ultimo giro, ho pagato a caro prezzo il tentativo di fumarmi un cubano col culo. L'ufficio immigrazioni mi ha beccato al volo.
Il carcere di massima sicurezza mi ha abbrutito; dopo quindici anni di saponette in culo e di piattole in bocca, la prima notte da uomo libero avevo intenzione di passarla a briglie sciolte, a sbronzarmi sino a svenire e magari morire nel mio stesso vomito. In una bettola di periferia sono stato avvicinato da un coiffeur tutt'uno con il suo costumino bondage di pelle, che mi mormorò qualcosa all'orecchio. E son passati in un baleno un paio d'anni, quando inspiegabilmente la fiammella s'é ravvivata di colpo e ho sfiorato per un attimo con le dita quel filinino finissimo di coerenza... mentre cacavo con una corda al collo in faccia a una paralitica sessantenne ricchissima, mi sono sparato un colpo in piena tempia.

Ora é arrivato il momento di andare, il mio break é ultimato e stanno estraendo i numeri...

AUTORE: PRF

21/09/11

PROFONDA ROMANTICA INCOMPIUTA

Nel seminterrato del palazzo Mardumi stava un piccolo appartamento, dove... no, non lo so qual'era l'appartamento, non ci sono mai stato e neanche so di nessuno che mai ci si sia trovato davvero, ormai da troppo tempo tutti hanno dimenticato dove fosse e quale fosse il campanello in questione. E del resto non ha importanza, perchè tanto la storia non parla del palazzo, o forse meglio parla di un non palazzo...

Comunque, viveva un uomo, sordo come una nuvola e dal pensiero leggero come il mare, che tutti chiamavano Nathan, il pazzo, perchè un po' per scelta e un po' perchè tanto non capiva un cazzo, non stava molto in mezzo alla gente, e si era rintanato in quel sottoscala umidiccio, un po' discosto dagli altri appartamenti, che aveva in compenso un pregio unico: lì dentro lui era da solo. Non pensate che fosse un eremita, si impegnava anche, poverino, ogni tanto provava a parlare, a inserirsi in un discorso, discorsi facili, sempre uguali, da scala di servizio, ma va da sè che essendo sordo molto raramente azzeccava la battuta o perlomeno l'argomento giusto. E pazzo anche perchè a lui gli piaceva stare nudo. Che bei momenti, quando la portinaia non lo vedeva, a correre su e giù per le scale, sballonzolando in libertà, e che emozione sentire i primi passi giù sul pianerottolo, e correre, correre a casa con la paura di essere scoperto...

Era fatto così, andava in giro bello contento a palle all'aria, ma fatto sta che un po' gli dava fastidio che tutti incontrandolo gli urlassero " COPRITI!" e "VERGOGNA!!!" e alla fine anche quando si copriva gli sembrava sempre che parlassero male di lui.

Qualche piano più su, nello stesso palazzo, viveva una ragazza che si chiamava Estai.... eh, anche il nome vero in realtà non si sa, perchè il giorno del suo battesimo, quando il padre le aveva dato il nome, non appena in chiesa la immersero nell'acquafonte, la bambina incominciò a parlare. "MIRACOLO!!!" "MERAVIGLIA!" Erano tutti contenti, e intanto la bamina continuava a parlare, avava iniziato allora e non smise più. Quindi il suo nome fu subito dimenticato, perchè dopo pochi giorni tutti, mentre le erano intorno, partivano con: "E STAI un po' zitta, cazzo!" e questo fu il nome che la piccola imparò. Essendo un po' scomodo e troppo lungo, le rimase il nome di ESTAI.(Le donne della sua famiglia stanno ancora ringraziando il cielo perchè a nessuno era venuto in mente di dirle: "CAZZO, STai un po' zitta!!", e si capisce che avrebbe vissuto ben peggio).

Estai era bellissima, fresca, gioiosa, ma era nata cieca. E poi ovviamente rompeva un po' i coglioni perchè non stava mai zitta, era anche impossibile risponderle perchè parlava sempre.

Comunque, un brutto giorno il C. C. A.(Comitato Condomini Associati) decise di cacciarla dal palazzo, perchè nessuno riusciva più a sopportarla. Il piano per liberarsi di lei fu deciso, crudeltà infinita, (però pensiamo anche a lui, anni e anni senza un secondo di silenzio) da suo padre, che così parlò: "Allora, Estai è tanto buona e gentile, se io le chiedo una cosa, di certo la farà: la manderò a prendermi le sigarette in piazza, così si perde, non trova la strada per tornare a casa, e tanti saluti!! Cazzo che idea eh? I Fratelli Grimm a me mi fanno una sega!" (era molto fine il padre di Estai). "Mandiamocela di notte, così si perde meglio!" esclamò il Presidente. "Ma sei coglione, tanto è cieca!" disse una voce, e il Presidente fu destituito. Cammina cammina, la ragazza si avventura per le scalette della palazzina, arriva in fondo e gironzola chiedendo per il tabacchino una decina di minuti, ma poi, per il bene della storia, scende una scaletta e dove va finire? Eccola lì che si schianta contro la porta del seminterrato di Nathan, che però ovviamente non la sente. "Scusi scusi ma io son nata così cosà, poi dovevo andare a prendere le sigarette per mio padre che... ma lo sa che mio nonno c'aveva un cappello che poi......" e giù a parlare...

Si allontana un pochino, vaga tondo a tondo, ma gira che ti rigira, saliscendi per scendisali, davanti a quel bugigattolo ci si ritrova un'altra volta. E si schianta nella finestra, si strabalta sul tavolo che si rompe in due, fa cadere una lampada che dà fuoco alle tende e pesta un piede a Nathan, che finalmente se ne accorge, tira giù un paio di bestemmie e spegne l'incendio.

Poi si volta verso l'ospite dall'entrata ad effetto, e la guarda estasiato, lei sembra un angelo, meravigliosa, una stella caduta dal cielo. "Tanto! quell e tende, mi faceevan ; schifo" [Peccato che al momento giusto non ti vengano mai delle battute decenti.] E intanto Estai giù a parlare, "della nonna che aveva le tende anche lei ed eran fatte così cosà...." "Scusi sa ma se parla, così veloce, non: le sto? dietro. sa, io ! son sordo!!" (Da sordi non è mica facile metter la punteggiatura nel discorso diretto). Nathan cercava di starle dietro, di sembrare brillante, eppure 'sta ragazza gli sembrava così strana... "Ma lei è cieca! Mi sembrava,, una scelta particolare' la capriola dalla finestra..." abbozzavava un approccio, ma era tutto era così strano, l'atmosfera permeata di sentimenti mai provati, odore come di macchina nuova, incarto di cellophane del suo amore intatto ed integro, puro respiro. E poi si guardarono, cioè lui la guardò e lei lo annusò e ascoltò il suo respiro e immaginò il suo volto.

"Se è sordo, lui di sicuro non mi odierà se parlo sempre! Ed è così gentile!" e, pensandolo, si avvicinò a lui.

"Se è cieca, non mi romperà i coglioni se sto nudo!" pensò lui.

E le prese la mano.

All'improvviso le loro anime si fondono e lei vede con gli occhi di lui e lui sente con le orecchie di lei, e lei tace e lui parla e lei ascolta e se per tutta la vita lui aveva sbagliato argomento adesso lo azzecca come nessuno c'ha mai azzeccato, e il suo cuore batte un amore infinito fatto di terra di fuoco e di mare e le sue parole lo gridano in rima in prosa in poesia, e non c'è mai stato un discorso più bello, nè mai ne verrà uno uguale.

Cadono a terra, stremati, sfiancati da una gioia troppo grande perchè il cuore la possa sopportare, da un amore troppo perfetto, istantaneo.

Quando si svegliarono il mattino dopo erano ancora intorpiditi, inebriati da quell'amore perfetto, dalla sensazione che aveva lasciato sui loro corpi, rendendosi conto con meraviglia che, alla fine, avevano ancora le mani intrecciate, e ancora lei vedeva e lui sentiva.

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[Manca del testo, nota dell'autore, o N.d.A. se preferite, ma fatto sta che ancora non me la sento di rinchiudere in uno "svolgimento" 'sti due personaggi. Gli ho dato un inizio, li ho fatti incontrare e senza nessssi logici li ho uniti, ho addirittura pensato una fine, ma non chiedetemi come sia andata da qui in poi, perchè da quando sono usciti dalle pagine di un quadernetto bianco per finire nell'infinito delle storie possibili li ho un po' persi di vista, o forse, più probabilmente, non so ancora scrivergli un motivo. Dunque, sapendo più o meno come va a finire, in qualche modo vi ci devo portare lo stesso, e allora qui l'inesperto autore deve lasciare spazio a te, o lettore, per colmare una fantasticamente colmabile lacuna nella quale tristemente, per volere o per sfortuna, per battaglia o per amore, si disgiungono le mani dei nostri due, e come uno sentiva e l'altra vedeva, uno torna a non sentire e l'altra torna a non vedere.]

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E ogni notte, nel letto, si tengono stretti, e si danno la mano.

Uno non sente e l'altra non vede.

Ma fanno all'amore lo stesso.

PICCOLO PASSO SULLA BIODIVERSITA’



Quanto poco si sa del Minotauro! Che avesse un nome vero, Asterio, quasi non è preso in considerazione. Il fatto che la sua mostruosità fosse dovuta a un peccato commesso da sua madre, per il quale lui non aveva colpa, sembra non avere importanza. Invece tutto si conosce del suo Labirinto, e ancora di più affascina lo scontro tra lui e Teseo, l'eroe mandato a sconfiggerlo. E questo è il racconto di come andò il combattimento, l'incontro, la sfida tra il bello e la bestia.

In pratica un

PICCOLO PASSO SULLA BIODIVERSITA’

“Non saprei dire da quanto tempo stavo vagando nel labirinto. Dedalo aveva fatto davvero un buon lavoro, il palazzo di Cnosso era un luogo irreale, dove si perdeva ogni concezione di spazio e tempo. Potevano essere giorni, mesi, anni, vite che mi trovavo là dentro… L’incontro arrivò quasi per caso: mi era già capitato di sentire quella bestia assetata del mio sangue respirare di là da una parete, in quelle occasioni il mio cuore aveva cominciato a battere, sempre più forte, sempre più forte, un tamburo di guerra che mi rimbombava nel petto… Non sapevo se anche lui mi avesse sentito, il suo respiro era rumoroso, affannato, ansimava per l’emozione dello scontro imminente; io invece mi muovevo elegante, anche quando le vene pulsavano per l’adrenalina il mio respiro era regolare. Del resto, mi era già capitato di combattere mostri come lui: ero sempre uscito vincitore dagli scontri senza nemmeno impegnarmi, a volte mi divertivo persino a battermi senza usare le mani, così, per gioco… No, era inutile ingannarsi, stavolta sarebbe stato diverso, una strana sensazione pervadeva il mio nobile spirito: quello che mi aspettava sarebbe stato il mio ultimo combattimento, l’avversario era troppo forte, ed avevo la netta sensazione che qualcuno mi avrebbe tradito… Avevo letto molte storie su quella bestia, si divertiva ad uccidere, combatteva per divertimento…ma del resto non facevo io lo stesso? Forse noi due non eravamo così diversi, dopo tutto… Forse avevo ancora una speranza di vittoria. Senza dubbio avrei combattuto con onore fino alla fine. Sarebbe stato il più grande dei duelli, degno di essere ricordato al fianco di quello avvenuto sotto le mura di Troia. Poco importava il vincitore, avrebbero scritto storie su di noi!

L’incontro capitò quasi per caso: ormai conoscevo bene il labirinto, e avrei giurato che quello fosse un vicolo cieco; invece seguendo lungo il muro il suo odore (un odore forte, di legno, di sangue rappreso, di sudore e paura, misti ad un odore familiare che non riconobbi subito) ci ritrovammo finalmente faccia a faccia. Non fu uno scontro leale: io ero un combattente valoroso, ma lui sembrava non conoscere regole… Non fu uno scontro leale… Schivai con facilità il suo primo colpo, credevo di essere molto più veloce di lui, e mi portai dalla parte opposta del corridoio per tentare una carica. Ma avevo sottovalutato il mio avversario, non ebbi il tempo di girarmi che lui mi fu addosso, ringhiante, con la bava alla bocca, bestemmiando il mio nome. Vacillai un momento per la paura, e solo un attimo prima che vibrasse il colpo riuscii a vederlo bene. Era davvero mostruoso: ci assomigliavamo nel corpo, ma la sua testa era orrenda, minuscola, senza corna, coperta solo da pochi peli biondi; la sua pelle non era spessa, i suoi occhi non brillavano della luce che splendeva nei miei, eppure aveva sconfitto Asterione, il grande.

Ero sconfitto, ma il mio Labirinto mi avrebbe vendicato: non ritroverai la strada, Teseo!

Solo mentre il mio cranio si fracassava sotto il colpo potente della sua mazza colsi il bagliore dorato nella sua mano: da lì veniva l’odore così familiare, l’odore di mia sorella Arianna.”

20/09/11

Il giorno in cui la Svizzera invase l’Europa (ovvero l’ambiguità dei referendum)

Nel 2011 andava di moda pensare che il Mondo sarebbe finito il 21 dicembre del 2012. Lo dicevano i Maya, Roberto Giacobbo, i complottisti, i giapponesi, Hannah Montana, il tenero Gigione, alcuni esponenti dell’Udc e l’impiegato delle poste, quello con il riporto, gli occhiali spessi e l’alitosi. All’epoca pensavo che anche il Papa fosse un po’ preoccupato, ma con mio grande dispiacere non fece mai outing.

Il 21 dicembre del 2012 arrivò, e non accadde nulla. Ci furono un paio di morti in una sparatoria a Napoli, un omicidio-suicidio nel padovano, un allarme bomba a Parigi e qualche buffa caduta dalle scale nel resto del mondo. Per il resto, tutto procedeva normalmente: le solite guerre, le solite polemiche sul debito pubblico, le solite schermaglie televisive, le solite risse nei bar londinesi. Il Mondo tirò un sospiro di solievo, Giacobbo cambiò mestiere (per un paio di mesi allenò la Sampdoria, ma venne esonerato e si diede all’import-export) e Vasco ricominciò a postare i suoi dannati “clippini” su Facebook. Passarono Natale, Capodanno, l’Epifania e persino il 17 marzo, quando alcuni scienziati e antropologi polacchi fecero una sconvolgente scoperta: la profezia dei Maya era stata tradotta male, molto male. Il testo originale, tradotto correttamente, era estremamente sibillino: “Il 21 aprile del 2013 la Svizzera invaderà l’Europa e instaurerà un regime di terrore e morte, riportando il Vecchio continente al Medioevo”.

Alla notizia seguirono le imbarazzate scuse degli elvetici: il presidente della confederazione si premurò di rassicurare gli amici europei con un discorso in diretta sulla Bbc: “Noi svizzeri siamo persone per bene, non abbiamo nessuna intenzione di invadervi. Il nostro esercito è composto da capre, mucche e da quei pagliacci che fanno la guardia al Papa, credete davvero che potremmo attaccarvi?”. Tutto sarebbe andato per il meglio, se non fosse per la bizzarra abitudine degli elvetici di ricorrere ai referendum per qualsiasi cazzata. Fu così che un parlamentare ticinese propose di far scegliere al popolo: come si sarebbe dovuto comportare il Paese riguardo alla profezia? L’animo guerresco e tutt’altro che pacifico degli svizzeri si rivelò allora al pianeta in tutta la sua schiacciante forza numerica: il 98,7 per cento degli elettori si espresse per un immediato attacco all’Europa, mentre il rimanente 2,3 per cento si limitò a disegnare una svastica sulla scheda.

Il giorno seguente misteriosi camion targati Iran e Corea del Nord, con una misteriosissima scritta sul fianco (ATOMIC BOMB INSIDE, PLEASE DO NOT TOUCH) furono avvistati dalle parti di Como, diretti a Lugano. La mattina del 21 aprile le maggiori città europee furono spazzate via da devastanti esplosioni nucleari, e milioni di mucche pezzate e di bionde contadine con le trecce, armate fino ai denti, occuparono l’intero continente. L’Europa si arrese immediatamente, ed entrò a far parte della Confederazione come Canton Europa. L’occupazione durò sedici anni: sedici anni di cioccolato, città ordinate, prati ben curati, regole rigide,treni in orario e mucche in ogni dove. UN INCUBO! Fortunatamente e finalmente gli europei si ricordarono che, essendo diventati a tutti gli effetti cittadini elvetici, avevano in pugno l’arma più devastante dell’umanità, il ricorso al referendum. Si andò a votare, di nuovo, e circa trecento milioni di cittadini chiesero ed ottennero la separazione dalla Confederazione. Fu un giorno di festa per il popolo europeo, e una sconfitta morale per la Svizzera, che per ripicca fu circondata da una muraglia di sterco di vacca progettata da Renzo Piano.

Questa è la storia di quello che accadde tra il 2013 e il 2029, gli anni più noiosi della mia vita. Che cosa mi ha insegnato quello che è successo? Niente, a parte che il referendum è un’arma a doppio taglio, che le vacche puzzano e che è meglio non fidarsi delle apparenze.

P.s.: Questo racconto è dedicato al popolo svizzero, a cui voglio molto bene. Se aveste intenzione di invaderci, sappiate che io sono con voi! Un abbraccio dal vostro amico ed estimatore italiano

AUTORE: SPECK

Lo spettro del fumo


Cristoforo Colombo era una persona estremamente antipatica, puntigliosa, arrogante, pignola fino all’eccesso, senza il minimo senso dell’umorismo, ottusa e pedante. Insomma, era un po’ uno stronzo. Oggi quello stronzo è considerato un eroe, un genio, un visionario, e addirittura una nazione intera, la patria dei narcotrafficanti, porta il suo nome. Ultimamente ho avuto la sfortuna di imbattermi in questa odiosa pubblicità in cui un attore con un naso importante lo fa passare per un simpaticone. E lo sterminio dei nativi americani? Se lo sono dimenticato tutti? D’accordo, la colpa è sua solo indirettamente, ma io mi ricordo di come trattava i cosiddetti “indios”, neanche i nazisti con gli ebrei erano così stronzi (continuo a ripetere questa parola e mi scuso con i benpensanti, ma non riesco a trovare un termine migliore). La Storia, quella con la esse maiuscola, è stata generosa e magnanima con lui, e si è dimenticata di me. Nessuno sa chi sono, nessuno conosce la mia storia, nessuno mi ferma per strada per chiedermi un autografo o per stringermi la mano. Eppure molte persone che incontro ogni giorno sarebbero diverse se io non fossi mai esistito. Forse starebbero meglio, forse i loro polmoni sarebbero meno marci, forse non avrebbero quella fastidiosa tosse, ma non è questo il punto. Io ho cambiato il Mondo, e nessuna Barbara D’Urso mi ha mai telefonato per chiedermi di fare una comparsata televisiva. L’avessi saputo al tempo, avrei scaraventato Colombo giù dalla Santa Maria, mi sarei diretto con piglio deciso al timone, avrei gridato “AMMUTINAMENTO” ai miei compagni, e oggi la Colombia si chiamerebbe Jerezia.

L’avrete capito, il mio nome è Rodrigo de Jerez, sono stato il primo fumatore europeo. Su Wikipedia potete trovare alcune informazioni su di me, ma incomplete e inesatte. Tanto per cominciare, nessuno si è preso la briga di scrivere la data di nascita e di morte, inoltre io ad Ayamonte non ci sono mai nemmeno stato, ero di Huelva (e ci tengo a precisarlo). La cosa che più mi fa arrabbiare però è quel “si dice che sia stato lui il primo fumatore di tabacco europeo”. Si dice? Ma mi prendete per il culo? Studiate, informatevi, leggete! Ho moltissimi testimoni pronti a giurare sulle loro madri che sono stato davvero io, primo fra tutti gli europei, a farmi una bella sigaretta dopo il caffè (il primo bevitore di caffè era un nostro compagno di viaggio, Luis, adesso vive a Madrid e fa l’agente immobiliare). Cosa mi ha riservato il destino per il mio gesto rivoluzionario? Sette anni di carcere! Triste storia, la mia. Tornato in Spagna, passavo i pomeriggi a fumare (non c’era ancora la televisione a quel tempo), e quei maledetti bigotti dei miei vicini di casa, vedendo il fumo uscire dalla mia finestra, si spaventarono e avvertirono la Santa Inquisizione. Bussare alla porta di casa e chiedere con gentilezza il perché delle nuvole di fumo, no? Fatto sta che mi beccai la mia bella condanna per “attività demoniache”, e mi rinchiusero in una puzzolente prigione andalusa, tra assassini e truffatori. Per sette anni! Avete idea di cosa significhi passare sette anni senza sigarette? Dio, che rabbia! Quanta ingiustizia nella mia vita!

Uscii di prigione, e l’amara scoperta fu che l’abitudine del fumo aveva preso piede, e un mio concittadino su due fumava. Nessuno mi chiese scusa, cattolicissima e ipocrita Spagna della malora! Questo mi ha riservato la vita, come a volermi punire per aver fatto ammalare molti esseri umani altrimenti sani. La legge del contrappasso. Eppure anch’io avrei diritto a un po’ di notorietà, no? Forse sto delirando, e mi scuso, ma a volte vorrei semplicemente morire in pace, andarmene in una nuvola di fumo, e finirla una volta per tutte con questa anonima e grigia esistenza. Ma chi sono io per giudicare e per trarre conclusioni? Sono solo uno spettro, il fantasma che esce dalle vostre bocche ogni volta che vi fate una tirata.

AUTORE: SPECK

10/02/11

Il Ludovideo

La famiglia Bxxxxx, casa di storici latifondisti, possedeva una miniera di rame sulle montagne. Dopo varie e proficue speculazioni edilizie e, soprattutto, dopo le commesse statali di fornitura di rame durante la guerra, si erano decisi ad investire nella nascente elettronica. Gli analisti interpellati, tuttavia, lo sconsi-gliarono: era quello un mercato fortemente concorrenziale; avevan tutti fiutato i quattrini nell'affare, e la voce grossa la faceva chi s'era trovato, qualche anno prima, ad affrontare una guerra di impianti per telecomunicazioni. Partire con un gap del genere lo giudicavano azzardato.
Ma gli analisti non tenevano conto della storia di quella famiglia, tutt'uno con il destino politico dell'isola: un nome forgiatosi nelle imprese della Riconquista e rafforzatosi con l'amministrazione delle terre e delle genti; polo economico nel primo settore, gradito ai Colonnelli, per la discrezionalità e l'appoggio nella presa e - di più vitale importanza - nel mantenimento del potere.
Colonnelli che altrettanto gradivano il concetto di famiglia: l'apparato statale di quella nascente Repubblica fu prodigo fin da subito verso i suoi servitori; il mutuo aiuto nella continua lotta per la sopravvivenza, dove riesci a trovarlo se non in famiglia? Quei patrioti erano figli. La famiglia allora era cosa seria, il fulcro della civiltà. Da essa si formavano gli individui, che avrebbero convissuto nella famiglia più estesa della nazione e alimentato con i loro bisogni e abilità un circuito vitale. E ci voleva che tutti s'impegnassero in questa giostra, per la stabilità economica, per consumare; ne andava della vita del mercato, nostro fratello, che soddisfaceva tutti i nostri desideri. A patto peró che lo si alimentasse. E questo nostro fratello bastardo ha sempre avuto tanta fame... e avremmo tolto di bocca il pane ad un nostro fratello, sangue del nostro sangue?! Impossibile, non sarebbe stata la società civile per la quale ci battevamo...
Contro tutti i pronostici, una serie di certe credenziali permise all'outsider dei componenti elettronici di strappare un ottimo contratto alle emittenti della TV di Stato.
La Bxxxxxx, con uno stabile afflusso di introiti, iniziò ad espandersi: comprò varie concorrenti, creò un reticolato di piccole fabbriche e botteghe, così da ottenere il controllo su più segmenti produttivi; ampliò e sfaccettò la fornitura, alla quale ora si affiancava una vera e propria produzione. La trasmissione di onde audio-visive ormai era diventata una questione a due: Bxxxxxx Vs Stato (sarebbe un lusso quel “Vs”. In questa storia non possiamo permettercelo).
La tradizione paternalistica, antico retaggio romano, voleva dal padre discendere il giudizio: facoltà di interpretare l'esterno, per preservarsi virtuosi e illibati; il padre é la guida, il consiglio, la necessità: devi mangiare questo che fortifica, coprirti perché fuori fa freddo, giocare a questo gioco istruttivo piuttosto che al pallone. É ancora la famiglia, lignaggio e marchio, i cui componenti son vincolati da un legame granitico, indissolubile. Un padre non può rifuggire dall'onore/onere di tutela, non lascerà mai figli e nipoti allo sbando nel bosco infestato dai lupi, eserciterà costante controllo su di essi. Ne andrebbe della loro incolumità. Quale padre metterebbe volontariamente in pericolo la vita di un proprio figlio, sangue del suo sangue?! Impossibile, non sarebbe la società per la quale lottiamo...
Un duopolio (meglio).
I Colonnelli eran la voce; la Bxxxxxx le corde vocali, gli occhi, la mente ed i bisogni. I cittadini avevano eletto la Televisione quale intrattenitore per eccellenza, riempitore del loro tempo che da libero diventava vuoto. Maestra di vita: i bambini più irrequieti venivano sedati piazzandoli con un biscottino davanti alla TV; gli adolescenti capivano come vestirsi, le donzelle affinavano le loro tecniche seduttive; tutti imparavano a piangere e ridere. Con l'avvento della TV, le strade sfollavano di gioventù, solo i meno abbienti ancora si sbucciavan le ginocchia.

Un decennio più tardi, da Levante soffiavano venti di nuove proposte tecnologiche: virtuali mondi illusori, fantastici simulatori di realtà, dispensatori di poteri e volontà assoluti. L'immaginazione e l'onnipotenza infantile avrebbero trovato libero sfogo...
Ancora una volta gli uccellacci nostrani diedero aspre previsioni. Mossi da valutazioni socio-economiche quali l'alta natalità e la propensione dei giovani a unirsi contrattualmente in nuovi nuclei familiari, i costi di produzione bassissimi e la conseguente competitività di questi aggeggi, che, almeno per i primi dieci anni, avrebbe azzerato la concorrenza, calcolavano una mole di soldi mai vista prima, difficile pure a immaginarsela, ma facile ad intendere che sarebbe stato un pesante smacco alla TV. Anzi, proprio la TV favoriva il successo dei nuovi giochi, perché avrebbero attecchito su un terreno già arato, su menti già spappolate. Ciò non lasciò indifferenti i Colonnelli, che questa volta non rimasero sordi al richiamo degli analisti. Poiché notarono la svolta decisiva, la probabile erosione del consenso, insomma l'incommensurabile potere racchiuso in quelle scatolette magiche. Vitale diventava l'appropriarsene.
Il padre si mosse per comprare i giocattoli ai proprio figli. Bloccò alle frontiere tutte le merci in arrivo dall'Est, e stipulò vari accordi con le case produttrici di videogame - così si chiamava la minaccia -, per i quali esse cedettero interamente i diritti di distribuzione ad un'azienda del Paese, guarda caso la Bxxxxx. Prima dell'effettiva messa in commercio, alacri funzionari statali inventariarono tutta la gamma di giochi disponibile, al fine di scartare quelli poco convenienti e di farsi un'idea su ció che invece mancava per trasmettere virtù e ammaestramenti alle giovani utenze. Provvedettero alla traduzione e sostituzione dei nomi, rendendoli più familiari e accessibili, snaturando i contenuti originali, ag-giustandone la traiettoria, con risultati, a volte, a dir poco comici e desolanti; ma andava bene per lo scopo, abbisognava. Nelle passeggiate in bici ai bambini si fa indossare il caschetto, gomitiere e ginocchiere, a prevenzione di eventuali cadute; se ci s'accorge che la bicicletta ha qualche parte contundente, da buon padre, si limano gli spigoli, si rivestono di gommapiuma le parti in ferro. Ne andrebbe della loro incolumità, etc. etc...

Il Ludovideo diventò presto l'oggetto del desiderio di grandi e piccini. E sì, giacché non erano solo i bambini a impazzire per esso, pure i loro genitori non vedevano l'ora di regalarglielo. Per le mamme era una manna dal cielo: i figli rimanevano in casa e non correvano pericoli, si gestivano meglio; per i papà la possibilità di tornare fanciulli assieme ai propri, di rilassarsi e goderseli, dopo un'intensa giornata lavorativa nella cava ad estrarre il rame, o in qualche industria a fabbricare cip e cavi.
Man mano che il successo del Ludovideo cresceva, lo Stato faceva sempre più richiesta di giochi interattivi: oltre ai simulatori di sport, epoche passate e future, città da costruire, le case produttrici fornivano alla Bxxxxxxx programmi d'aerobica, seminari di cucina, taglio e cucito, lezioni di bricolage; pian piano si riuscì a ricreare un intero mondo possibile, la società civile che ci sforziamo di costruire. Il Ludovideo rosicchiava spazio reale, rendendolo virtuale e viceversa. La gente sullo schermo riusciva nell'illusione di essere ciò che si vuole, molto più allettante che trovarsi ad essere ciò che si é. C'erano certi giochi che ti permettevano di decidere che colore di capelli avere, di scegliere il modello del tuo naso; conducevi una certa vita, realizzavi le tue aspirazioni, e il denaro non mancava mai; non si invecchiava, non si moriva. Non una semplice seconda vita, ma la vita, quella “degna d'essere vissuta”; tutte le frustrazioni e i problemi di quella reale sfumavano via, senza accorgersene. Con il gioco Taberna anche il cibo potevi scegliertelo: un apposito casco da indossare durante il pasto rendeva delle inodori ed insapori barrette bianche gustose leccornie da tutte le cucine del mondo; gli alimentari chiudevano, la vendita di barrette era monopolio della Bxxxxxx. I negozi d'abbigliamento non se la passavano meglio: a che servivano, quando con Luxus possedevi una stanza del tuo villone adibita a guardaroba, quintali di Versace, Valentino e scarpe pitonate, mentre scomodamente spaparanzato in poltrona indossavi il pigiama slabbrato di sempre, con le chiazze di sugo che non andavano più via? Locutorium, poi, connetteva tra loro i vari Ludovideo, cosicché era possibile parlare con gli amici ed incontrare persone senza uscire di casa.
I luoghi esterni perdevano di utilità, nei parchi nessuno correva, attività produttive fallivano, la gente a cui non rimaneva nulla agonizzava sul ciglio delle strade deserte. La Bxxxxxx riprese le sue speculazioni edilizie, palazzoni spuntavano dappertutto colmando i vuoti, nascondendo le vergogne.
Al riparo della casa, il Ludovideo a tutto forniva un'alternativa. Nelle città cibernetiche non esistevano barboni, mendicanti, operai, poveri... li avevamo tutti eliminati con uno dei primi giochi che uscirono, Orbe Mundo; si era tutti egualmente ricchi e potenti, si viveva in pace (dopo Orbe Mundo, in alcun gioco fu previsto l'uso di armi) e senza autorità (la categoria dei politici non c'era); non pioveva mai e ogni giorno si andava in spiaggia, tranne il giorno di Natale, quando puntualmente a mezzanotte iniziava una flebile e calda nevicata.
Tuttavia, in questo mondo incantato vi erano delle crepe, degli ancoraggi che trattenevano i cittadini, cose infime e sgradevoli che il sogno non riusciva a cancellare e che facevano disprezzare ancor di più la vita reale: a pisciare e cacare si continuava ad andare nel cesso, non si trovava ancora il modo di eliminare il puzzo; le pompe funebri erano l'unica attività commerciale rimasta, oltre alla Bxxxxxx; le malattie proliferavano come sempre. Si era creato un forte scompenso tra finzione e realtà, per il quale la prima non poteva più essere sostenuta dalla seconda. Gli analisti tornarono ad alzare la voce, questa volta con presagi molto più funesti: la disoccupazione sgorgava a fiotti, non si trovava lavoro se non negli insediamenti della Bxxxxx, che arrivò a contare più di 3 milioni di dipendenti; di tutti i caseggiati costruiti, solo pochissimi trovavano acquirenti; il Ludovideo smise di essere comprato con la saturazione del mercato; le famiglie non riuscivano più a comprarsi le barrette per giocare a Taberna. La forte sperequazione della ricchezza era diventata un cappio, ora l'economia s'andava bloccando: seppur con grosse liquidità, ma con un'economia morta, anche i Colonnelli e la stessa famiglia Bxxxxxx sarebbero incorsi nei problemi. Le loro manovre economiche s'erano rivelate tutte sbagliate, si stava andando incon-tro al collasso.
Col fiatone gli analisti riportarono questo bollettino catastrofico. Non era più un problema eludibile. E sia i Colonnelli che i Bxxxxxx lo sapevano benissimo.
Esistono padri che scappano via di casa, che lasciano al loro destino la prole. S'inventano una scusa ed escono per sempre da quella porta - le classiche sigarette -, i loro figli non li vedranno mai più. Chiamatela come volete: vigliaccheria, irresponsabilità, mancanza d'amore, spregiudicata insensibilità, e poco importa se entra in rotta di collisione con i precedenti discorsi, con le antiche politiche. Nella necessità non esiste coerenza.
La barca stava affondando ed i Colonnelli con tutti gli esponenti della famiglia Bxxxxxxxx si prodigarono ad occupare tutte le scialuppe di salvataggio a disposizione per la fuga. Emigrarono via con tutte le loro ricchezze incommensurabili, lasciando i cittadini in un sogno ch'era divenuto incubo: si moriva di fame, il commercio era stato annullato, l'agricoltura e la pastorizia avevano lasciato lo spazio per la costruzione selvaggia di casermoni.
Quella nazione era diventata un enorme cimitero. Solo rame, plastica e cemento. Prima o poi tutti avrebbero staccato lo sguardo dallo schermo, anche i più obnubilati, e si sarebbero accorti dell'infima fine che li aspettava.
Ed in vero tutti ci destammo. E grande sorpresa e disperazione furono al nostro risveglio, ah com'eravamo stati sciocchi, che infame frode avevamo subito! Pochi fummo a provare un forte senso di colpa, poiché coscienti delle nostre responsabilità in quanto cittadini; ma non tutti ebbero la sensibilità di percepirlo, e si disperavano versando copiose lacrime di coccodrillo. Seguirono suicidi solitari, o di intere famiglie: si facevano carnefici di loro stessi, il terrore dell'assenza di futuro mieteva così le sue vittime. Qualcuno riuscì a scappare, molto pochi a sopravvivere.

28/01/11

madonna cieca -parte terza


V




Ora, gentili lettori, senza alcun motivo apparente, introdurrò un personaggio. La sua caratteristica principale, come potrete osservare da voi, è che non è umano.
Alieno, se ne andava in giro armato di uno smaterializzatore calibro 9.
La sua missione, salvare il pianeta e fare scorta di Moretti.
Tale alieno, di nome Mary, intratteneva una sorta di relazione amorosa e clandestina con un essere umano, tale Moira.
Una specie di copertura.
Si bulleggiava di essere alieno come tanti personaggi famosi, quali Tom Jones, Obama, Berlusconi e Iva Zanicchi e se non gli si credeva, minacciava gli astanti con il suo calibro 9, anche se a volte mancava la presa e minacciava gli astanti con una boccia di Moretti.
Amava il ping pong, il calcetto (portiere), la Moretti, Moira (almeno così diceva in giro), e il suo smaterializzatore (ma nessuno glielo vide mai usare).
Diceva di venire da un atollo lunare, nei pressi di Torrita.
Mi riuscì bene una notte di sostenere una discussione con suddetto Mary insieme a Debby, già dileguatosi nei pressi della jungla del sabato sera, attorno all’esistenza dei numeri impari, per poi passare all’emerito argomento delle bestemmie in campo straniero.
Era vero che gli italiani imprecavano a Dio e alla Madonna in quantità maggiore rispetto a russi, francesi, inglesi,indonesiani o turchi? Ma gli alieni del satollo lunare di Torrita bestemmiavano? E come? Quanto?
Più di noi italiani?
-Madonna cieca in una valle di spigoli!
Attebasile ci sorprese con una bestemmia carpiata del terzo tipo. Non era certo la prima volta che si distingueva fra la folla. Nel frattempo, infatti, si era già cosparsa gli abiti di Braulio.
-Cavolo ragazzi! Per ripigliarmi da un giovedì sera mi serve un intero fine settimana…così non va bene per niente!
Ciondolò via.
La discussione con Debby e Mary proseguì per altre sette ore, senza raggiungere un risultato soddisfacente. A dire il vero la contesa si spostò sulla questione se lo smaterializzatore di Mary fosse realmente un calibro 9 oppure qualcosa tipo un liquidator.

Il giorno dopo, al risveglio, in camera mia pareva fosse esplosa una bomba.
Panna era pronta a mostrarmi il vestito da lei cucito.
Nel giro di pochi giorni, poco più di una settimana, si sarebbe verificato l’evento che avrebbe completamente cambiato la vita della coraggiosa sarta: la sua sfilata di moda.
Pisa, alta classe, ma è uno sballo! Spremute d’arancia e bicchieri di cristallo! Pieno centro storico, eleganza allo stato brado; donnine in ghingheri all’ultimo grido piene di prosecco.
Panna, in veste di ambasciatrice di se stessa, avrebbe dato vita a un nuovo corso stilistico, preannunciando una più affascinante epoca dell’alta moda internazionale.
Era però ancora presto per parlarne; sarebbe ancora dovuto accadere.
Nel frattempo, serviva anche a me un fine settimana per riprendermi da un giovedì sera.

Coupè, anch’essa con gli abiti cosparsi di Braulio, scorse in quello che, ahi!lui, era un piccione morto, una rana viva e gigante li lì per zomparle addosso dotata di una aggressività mai vista da essere umano, esploratore che fosse, aggredendola con zanne roboanti e squame velenose.
Dalla cornetta del telefono suggerii di saltarla e poi entrare in casa, semplicemente. Oltretutto, ad averlo saputo prima, era comunque morto.
Dotato di innumerevoli capacità di trasformazione  però, questo animale incuteva a Coupè grandi timori e preoccupazione, in quanto la bestia diveniva ai suoi occhi prima rana assassina, poi coccodrillo delle paludi di sabbie mobili, drago sputa fuoco e infine uno Spitfire.
Quella che alla mente ribaltata come un k-way della giovane protagonista appariva oramai come una guerra in stile ottocentesco, rischiava a quel momento di frantumare la sua già instabile percezione della realtà, costringendola alla fuga e alla richiesta di aiuto.
Giunse allora Mary, armato di tutto punto con solo una boccia di rum al posto dello smaterializzatore, a salvare la sventurata.
Versò il rum sul piccione morto e gli diede fuoco, così, in mezzo alla via.
Leggende del luogo suggeriscono che Mary fosse arrivato volando.
Anche il piccione, però.

Il giorno dopo la discussione sui numeri impari di Debby fu invece all’insegna del sonno.
Gli capitò di sognare di come sarebbe stata la sua vita se quindici anni fa durante le festività natalizie fosse stato meno cattivo; una specie di favola di natale di Dickens, con lo spiritello che ti porta in giro a guardare dalle finestre dentro le case altrui.
S’era sognato a capo di una azienda produttrice di pace, merce ridotta a mero bene di consumo, acquistabile. Il mondo in sempiterna guerra ruotava attorno ad un unico essere umano in grado di garantirne la continuazione, seppur con la pace. Se non c’è pace non c’è da far guerra perché, senza una valvola di sfogo, la belligerante arte umana più abbietta non riesce ad esprimersi.





VI
(BELEZA ES TU CABEZA)




E mi venne voglia di andare all’estero; mi colse in piena notte.
Una strana e ripetitiva e ridondante voglia in formato bisogno che colpisce un italiano su uno; quelli che non la subiscono mai si contano sulle dita di due dita.
L’ultima esperienza in terra straniera risaliva ormai a cinque o più mesi fa, in Spagna.
Un viaggio che merita un riassunto.
Partivo con questo oroscopo:

In questo mese tutto procederà a gonfie vele, poiché tutti avranno qualcosa di positivo da raccontare alla fine di questo Agosto di vacanze! Non abbiate paura di farvi avanti, anche nelle situazioni più impensabili, perché è il momento giusto per provare nuove sensazioni e per mettersi in gioco da questo punto di vista!

Aveva ragione.
Peccato che non avesse previsto lo sfacelo di ogni tenerezza di lì a un mese, con il placido zampino di tesi di laurea, nervosismi e psicomitomani arrivate al momento e nel posto sbagliato, con strane pretese sulla mia persona e sul mio amore. Come ho già detto, amo chi mi ama, odio chi mi ama troppo.
Ma torniamo al viaggio.
Io, Enawinehouse, Cinderella, Ronson Rosalia Watson, Vucinic e Camomilla partivamo da Orio al Serio, atterraggio a Valencia, dove avremmo dovuto cercare Carrer del music Hipolit Martinez, 10, indirizzo dell’amico un tempo conosciuto come Pierpa e ora riconosciuto come El Gordo.
Agosto sfogava tutto il suo terribile calore sulla nostra carovana di bagagli e persone. Il caldo faceva salire dalla città tutti gli odori dell’estate, non sempre piacevoli, costringendoci inoltre a lunghe pause fra una gita e l’altra, o a eterni riposi in casa del Gordo, assetati di anguria e melone bianco, creando sfide all’ultimo sangue per il cruciverba sul tavolino di vetro.
Jefferson Airplane nello stereo, sulle pareti poster di Reservoir dogs, Los Delinquentes, Scarface, Muchachito che presentava su nuevo disco, una mapa dels paisos catalans, un disegno di Snoopy sparato nel cielo, protetto solo da un casco da bici.
Fuori dalla finestra, Valencia, riflessa in uno dei suoi palazzoni anni ’60, bianco, terrazzato, e i panni ad asciugare.
Placa de Benimaclet, Barrio del Carmen, Placa de la Virgen, el Jardin del Turia, il Gulliver, Placa Adjuntament, de Sant Agustì, de Toros, si aprirono ai nostri occhi.
Noleggiammo delle biciclette e degli strani carretti a pedali all’alquiler de bicis, misurandoci con l’infinita lunghezza del Turia, fino alla Ciudad de las ciencias, rischiando di ribaltarci in un fosso pieno d’acqua.
Decidemmo per Barcelona come prossima meta. Salida a Valencia Norte, ore 6: 40, llegada a Barn. Sants, ore 9: 39.
Fui l’unico a perdere il treno, causa Salvezza, un ragazzo che cercava casa a Siena e che l’aveva trovata a casa mia proprio nel momento meno opportuno. Mi trovavo infatti a litigare con la Guardia Civil di Valencia per motivi ancora da stabilire (il mio sacco a pelo era risultato essere sospetto), mentre questo insistentemente chiamava.
In realtà il vero motivo per il quale persi la corsa fu la capocciata che presi la sera precedente, mentre litigavo con la brocca di sangria.
41, 10 euro di biglietto buttati via.
Raggiunsi gli altri con il treno successivo, ore e ore dopo, quando ormai Enawinehouse, indicibilmente provocata dal caldo, voleva a tutti i costi riposarsi all’ombra della Sagrada Familia.
La Pedrera ci accolse già stremati, il Barrio Gotico coraggiosamente decisi a vedere ancora la città, la Rambla ci distrusse, Barceloneta ci raccolse.
Il ristorante cinese ci accarezzò lo stomaco.
La notte si dormì a Barrio Gotico, al primo piano di un ostello, con le urla e gli schiamazzi di una città sempre viva che entravano prepotenti e felici dalla finestra. Non chiusi occhio per tutta la notte, ma mi sentivo consapevolmente cullato dalla frenetica vitalità umana. Ero serenamente colpito da quello schiaffo di colore e luce che si agitava fra il vetro aperto del nostro balconcino e la piccola via sotto di noi, trafficata, percorsa instancabilmente da turisti e catalani, sempre pronta ad accogliermi nel suo sciamare di uomini nel caso avessi preferito passeggiare piuttosto che tentare di dormire.
Il giorno dopo era il nostro ultimo giorno a Barca. Catedral de la santa Creu, Baixada de la Gloria, Parc Guell e il Portic de la Bugadera, dove un chitarrista suonava Stand by me, la Ribera, el Raval della Ciutat Vella, casa Battlò, Placa Catalunya, il Port Vell.
Come se fossi stato ancora lì, a cercare una fontanella dove riempire la bottiglia, a svoltare l’angolo per trovarmi faccia a faccia con un felafel, a riempirmi gli occhi con le case di Gaudì.
Impareggiabile.
L’odore di Barcelona, il suo colore, la sua gente, resteranno per sempre nella mia mente.
Soprattutto il felafel.
Impareggiabile.
Tornando, nella notte cullata dallo scorrere della corriera sull’asfalto, sostammo pochi minuti a Tarragona e a Castellon, anche se a noi parve di essere nel mezzo del nulla.
Usciti dalla stazione di Valencia, un Hummer limousine, qualcosa che non osavo nemmeno sognarmi, si fece le beffe di noi e della nostra giovanile bellezza, riflettendo sulla sua carrozzeria stralucida le nostre facce stanche e sconvolte.
In quelle vacanza trovammo il tempo anche per un po’ di mare. Destinazione Murcia, dalla quale saremmo partiti alla volta de La Manga, sul Mar Menor, assieme a Gusy (lui) e Roma(lei), due vecchi amici erasmus in toscana l’anno prima.
Più a sud si andava, più la canicola si faceva opprimente, opprimendo tutte le nostre energie.
Mangiammo molto pesce.
Dormimmo in spiaggia, risvegliandoci come se ogni ricordo della sera precedente fosse stato rinchiuso in una bolla; ricordare non era facile perché, si sa, se scoppiava la bolla, spariva anche l’aneddoto. Qualcuno avanzò l’ipotesi che avessimo sotterrato Cinderella, fino al collo.
S’era infatti svegliata faccia nella sabbia, in una buca.
La ricerca di un bar per la colazione non fu cosa facile, con l’opprimente calore che già dalle prime ore del mattino era calato, come una falce, sui turisti dalla pelle bianchissima. Ne trovammo uno affacciato sul mare verde e limpido, con molta ombra tutta per noi, adatto a smaltire ogni eccesso ingerito o perpetrato nella notte.
Ricordai che la sera prima, disteso col naso in su, pensai: -Guarda quanto cielo! E quante stelle…sotterriamo Cinderella??